Una doverosa introduzione dell'Editore. E' impossibile o quasi classificare correttamente Caliban se non lo si conosce personalmente, e pure da parecchi anni. I suoi racconti sono, a volte sconcertanti e visionari, scorci di incubi sessuali spontanei più che barocche fantasie onanistiche. Con lui si rigenera, senza soluzione di continuità, quel filone disturbante ed eroto-filosofico che fu di De Sade, Apollinaire, Bataille e, in estremo oriente, di Tetsuo Amano e il suo Kachikujin yapū, il bestiame umano - pubblicato a puntate a partire dal 1956 proprio sulla rivista giapponese Kitan Club dalla quale abbiamo tratto ispirazione per questo magazine.
Forti i dubbi sull'opportunità di pubblicare i suoi racconti anche in questo contesto, forti le perplessità di cui anche lui è al corrente ma inutile chiedere di "limitare i danni" con autocensure. Non lo farebbe neanche se ad imporglierlo fosse la Mistress delle Mistress dei suoi sogni; paradossalmente un sub con inquietanti tendenze alla castrazione non è, in alcun modo, castrabile dal punto di vista intellettuale e creativo.
Unica e sola giustificazione alla pubblicazione è, di fatto, che facendo parte di una sezione "racconti", ed essendo limitato in questo ambito, più di un tanto danno non può fare.
Eclettico, filosofo, scienziato, poeta (a suo modo) e scrittore, fotografo e sceneggiatore Caliban è, sopra ogni cosa, un esploratore, un antropologo dei giorni nostri che, il manuale di Levi-Strauss alla mano e macchina fotografica al collo scompone e ricompone, con impeto cubista e nichilista, immagini, suoni, ansiti, pensieri.
Un suo set fotografico di natura assolutamente vanilla può ricomporsi, dopo essere passato nel tritacarne delle sue per-visioni, in una sfrenata corsa distruttiva e autodistruttiva. Come Araki Nobuyoshi, il famoso fotografo giapponese, strappa, ricuce, graffia le sue fotografie Caliban mescola parole e immagini, le scarifica e scarnifica sulla tastiere, usa Corel e Photoshop per generare creature notturne inquietanti, inquietanti sogni di irreversibile sottomissione.
Ma, come ho detto all'inizio, è difficile capire Caliban se non si conosce la persona che sostiene il personaggio. Già la scelta dello pseudonimo è indicativa: per chi conosce l'opera di Shakespeare è un vero e proprio manifesto letterario. Caliban, spirito della terra, parto disgraziato e deforme di una strega, costretto al verbo solo per meglio servire un padrone che non vuole e aduso alla pesante, dittatoriale, presenza di una madre indegna mescola gerghi e parole per dispetto, in un impeto di anarchica ribellione. Come Salvatore, il monaco eretico de "Il nome della Rosa", Caliban (il nostro autore) ama mescolare gerghi e stili, ama miscelare e sedimentare alchimie di sue fotografie e foto scaricate da internet con un gusto sopraffino di rappresentazione simbolica.
Un uomo tormentato più da se stesso che dalle sue, numerosissime e sempre presenti, mistressine che, anzi, adorano essere tormentate da lui. Un uomo fondamentalmente saggio e sempre pronto ad aiutare ogni anima persa, fiducioso nella natura sostanzialmente buona del suo prossimo ma pronto a deludersi senza abbattersi.
Dimenticate SSC nei suoi racconti, negoziazioni di qualsiasi tipo o natura: le sue situazioni sono innegoziabili, irreversibili, talmente paradossali da liberare, infine, le ali delle fantasie più morbose ma senza perdere il senso della realtà al quale ci riporta, per contrasto, proprio con la sua scrittura onirica e surreale.
Vi lascio, quindi, al suo racconto e vi invito a godervelo.
Buona lettura
[Editore cKC]
Precum
Delle Dee e delle Streghe
Nel quale l'autore si presenta e ci presenta il suo universo distopico in cui Dee e Streghe vivono e agiscono nella più completa impunità
Sono da sempre affascinato dall'idea della castrazione morale e della riduzione del maschio che c'è in me ad un mero oggetto per la produzione di sperma. Apoteosi di questa pratica di sessuale de-sessualuzzazione è, poi, l'utilizzo non riproduttivo del mio seme, per infiniti scopi, da mero liquido da farmi ingurgitare, meglio se sapientemente mescolato con sputi e urina delle mie aguzzine, fino alla base cosmetica per creme e prodotti di bellezza o nutrimento per altri schiavi.
Sempre, nei miei sogni perversi le aguzzine mungitrici sono almeno due, entrambe crudelmente predisposte ad eseguire l'operazione senza lesinarmi la giusta quantità di umiliazione e dolore.
Questo sogno erotico ossessivo e fastidiosamente ricorrente è piantato nella mia testa da quando, poco più che quattordicenne mi "scontrai" con due sorelle di cui una più o meno della mia età e una di qualche anno più avanti ma, comunque, non credo ancora ventenne.
"Scontrai" è il verbo giusto perché fu per me una vera trambata vederle, bellissime, perfette, more e prosperose, abbronzate, in miniabiti da urlo, aderenti tubini così stretti da disegnare sul tessuto le linee più che audaci dei loro ridottissimi tanga, spalle ampie nude, seni pieni, gambe snelle e dritte.
Non chiedetemi cosa calzassero, forse stivaletti estivi, quello che ricordo erano solo gli altissimi tacchi perché un mio amico, più sgamato di me, nell'incrociarle per l'assolata strada estiva, noi sul motorino, loro ferme a discorrere in un parcheggio, gridò "mioddiioo! Mi potreste calpestare un poco?"
Si prese un sonoro vaffanculo e io ebbi uno scatto al pisello come mai fino ad allora sperimentato, uno struggimento disperato e insormontabile.
Desideravo con tutto me stesso essere abiettamente usato da quelle Dee per esserne mortificato e deriso ma, allo stesso tempo, sapevo che mai nessuna delle due mi avrebbe degnato di uno sguardo.
Il timbro sprezzante della loro voce nel mandarci affanculo, la bellezza sguaiata e ostentata dei loro corpi, l'atteggiamento sfrontato da padrone del mondo mi toccarono così profondamente che dedicai loro più di un anno di seghe quasi quotidiane.
Discretamente, giorno dopo giorno mi informai delle due, ben note, sorelle che, per comodità chiamerò come loro si facevano chiamare, Monica e Gloria. Non so davvero se fossero i loro veri nomi ma in quel periodo ciascuno si cambiava il nome come più gli piaceva e se a loro così piaceva che dire?
Discutereste di nomi con Demetra o con Persefone? Con Atena o con Era? Lo fareste con Venere?
Loro erano le mie Dee e io ogni giorno dedicavo loro la mia blasfema preghiera.
Presto imparai a masturbarmi in ginocchio, nudo come un verme, ai capezzoli le mollette, nel culo ben infisso il manico di una spazzola per capelli che tenevo in sede impalando me stesso su di essa.
Quando venivo, spruzzando seme sulle piastrelle ringraziavo le Dee e, subito dopo, a Loro dedicavo le devote lappate del mio stesso sperma.
Ebbi molto da fare per un anno, l'ho scritto.
E in quell'anno i sogni masturbatori si fecero più articolati e "realistici".
Non mi accontentai delle algide Presenze Divine che mi guardavano, annoiate, offrire loro la mia misera mascolinità.
Si stufarono presto dei miei rantoli e mi lasciarono solo.
Tornarono qualche giorno dopo in veste di streghe che usavano del mio sperma per creare filtri malefici.
Mi gettavano con malevolenza a terra, nudo e strisciante tra i loro tacchi, mi calpestavano e calciavano. Io dovevo, nel frattempo, masturbarmi e venire entro un bicchiere di cristallo. Non una sola goccia doveva perdersi, non una stilla dovevo permettermi di trattenere, pena altri calci, schiaffi e sputi in bocca.
Andò avanti così qualche mese ma loro si fecero più ingorde. Gli affari di stregoneria rendevano bene, bisognava approfittare della redditizia vacca da mungere che avevano tra le mani.
Per accertarsi delle mie prestazioni mi obbligarono quindi a presentarmi ogni giorno per quello che chiamavano "il raccolto quotidiano".
Dovevo entrare a casa loro e spogliarmi, andare in cucina, salire sul tavolo e qui aspettare a quattro zampe il loro arrivo.
A volte giungevano subito, altre le ascoltavo parlare al telefono o tra loro anche per intere ore.
Mai dovevo osare chiamare o protestare. Dipendevo da loro, ero la loro vacca da mungere, un onore che non aveva prezzo!
Mi avrebbero scaricato in attimo se mi fossi permesso: il mondo è pieno di vacche come te - mi disse un giorno Gloria - ti buttiamo nel cesso in un secondo e ti caghiamo in testa per saluto.
Risero entrambe di gola e Monica affondò il manico della spazzola fino all'ansa rettale con brutale crudeltà. Venni ansimando ringraziamenti tra i denti, fu un ottimo raccolto, quel giorno.
Sospettando che tirassi apposta per le lunghe segandomi lentamente, e volendo aumentare la produzione, decisero che alla mungitura si sarebbero dedicate loro direttamente, alternandosi quando una di loro si stancava o annoiava.
Mi fecero comprare un paio di duri guanti di scorza per giardinaggio e un bastone liscio con la punta arrotondata di una vanghetta d'orto fu il mio nuovo intrusivo compagno anale.
Come detto, poggiavo gli attrezzi sul tavolo e, nudo come un verme, il cazzo già in tiro, mi mettevo a quattro zampe sul piano di legno, per le mie ginocchia duro come il marmo.
Quando si degnavano di dedicarmi la loro attenzione Gloria, la maggiore delle due malefiche sorelle, indossava i guanti di scorza e mi afferrava lo scroto palpandomi come fosse tetta di vacca.
Controllava la consistenza per decidere se mi ero o no masturbato in loro assenza sprecando il frutto che solo a Loro era dovuto.
Nel frattempo Monica, seconda delle sorelle solo per età e non certo per cattiveria, mi piantava il bastone nel buco del culo.
Così attrezzato e corredato di dure mollette di plasticone ai capezzoli, iniziava la mungitura.
Se Gloria riteneva non mi fossi masturbato era mio dovere venire due volte. Se il suo responso era "la vacca si è munta da sola" la masturbazione durava fino a quando non registravano il primo orgasmo a secco.
Ore e ore di brutale scuotimento di cazzo, doloroso, senza interruzioni, insensibile ai gemiti di dolore del post orgasmo.
Non c'era tempo da perdere con raffinate carezze.
Qui si badava solo alla produzione.
Produzione che non calava durante il weekend che Loro dedicavano a divertimento e riposo mentre io dovevo utilizzarlo per la necessaria prosecuzione del lavoro di mungitura, per mio conto.
Durante il periodo di asservimento onanistico alle due Dee ebbi la Fortuna di incontrare Monica nel mio ascensore, un paio di volte, giusto perché era diventata amica di una nostra coetanea che abitava al settimo piano della mia scala.
La prima volta Le chiesi a quale piano scendeva. Lei mi guardò, sorrise e mi disse che arrivavo prima io. Poi mi tolse gli occhi dall'anima e quando scesi al mio piano neanche rispose al saluto.
La seconda volta era con la sua amica della mia scala, diedi il passo, entrai dopo di loro. Ridacchiavano per cose che non mi contemplavano. Quando uscii sul mio pianerottolo le salutai. Non ebbi risposta se non in una battuta della mia vicina che non capii e una fragorosa risata alle mie spalle.
Il giorno dopo tre streghe mi munsero sul tavolo di una nuova casa, di una nuova cucina e una di loro iniziò a controllarmi ogni giorno, ogni giorno ispezionarmi, a qualsiasi ora, per garantire l'ulteriore plusvalore che dovevo produrre anche a Suo vantaggio.
Ovviamente tavolo e cucina erano collocati al settimo piano del mio stesso palazzo.
Durò un anno questa sottomissione al loro turpe mercato.
Poi incontrai Lilli, la mia prima fidanzatina, e Loro furono dimenticate.
Lilli era reale. Lunghi capelli biondi e occhi azzurri freddi come il ghiaccio.
Bella, acerba ma non troppo. Furba, tanto. Soprattutto dotata, pur avendo la mia stessa giovane età, di una perspicacia animalesca e brutale.
Il giorno che arrivai con le dita, dopo ore di baci densi di saliva e poveri di sesso, sotto il serico velo dei suoi slip, si allontanò un attimo da me e mi guardò fredda e disgustata: se vuoi continuare fai pure, mi piace farmi sditalinare - sorrise con ironia e mi spinse il ginocchio tra le cosce, sotto le palle, con forza - ma scordati che poi io ti renda il favore. Al solo pensare di sfiorare il tuo cazzetto mi viene il vomito!
Mi consentì solo di strusciarmi sul suo ginocchio ma senza osare venire.
La masturbai allora e la masturbai, leccai, adorai per nove mesi a seguire.
Bevvi i suoi umori e bevvi il suo scherno.
Quando era da sola a casa mi telefonava per dirmi quanto apprezzava il mio cavalleresco sacrificio e, ogni tanto, ma non sempre, mi consentiva di scaricarmi. Ma dopo, solo a telefonata conclusa e senza pensare a nulla. Non a Lei per non mancarle di rispetto. Non ad un'altra per non tradirla.
Furono nove mesi deliziosamente difficili e non sempre ottemperai al mandato di non pensare a Lei. Ma mai mi masturbai senza il suo permesso.
Nessuno è perfetto!!
Alla fine mi tradì e mi lasciò.
Non ne feci una tragedia e, per qualche tempo, tornai alle mie streghe-Dee.
Ma si erano un po' raffreddate e, ogni tanto, Lilli doveva irrompere nella cucina e rimproverarle aspramente per la loro blanda efficacia. Essendo disgustata dal mio cazzo era costretta a chiamare Monica o Gloria o la mia vicina e guidarle con ordini perentori di accelerazioni, frenate, strette poderose e carezzine untuose.
Lilli era fatta così, sapeva imporsi anche alle streghe ed era più strega di ogni strega anche se non mancava né una messa domenicale né una comunione.
Ma anche i suoi interventi si resero ad un certo punto inefficaci.
Finii le superiori e partii per la naja.
Fu lì che grazie ad una rivista delle Edizioni Moderne, imparai fondamentali nozioni sulla vita in castità di mariti moralmente castrati e, soprattutto, l'uso del massaggio prostatico per svuotare senza piacere, e senza troppa fatica, le sgonfie palle di un maschio castrato: niente altro ci voleva se non un vibratore della giusta forma serrato nel culo della vacca e un piedino calzato con scarpette a stiletto per tenerlo in sede. Un'occupazione questa che, ben sistemato il porco sul pavimento e fattogli esporre il sedere nel modo corretto, si poteva eseguire senza fatica alcuna leggendo sul sofà, guardando la tv, parlando al telefono con amiche o, anche, cenando o facendo colazione.
Tornai a casa, durante una breve licenza, e mi capitò di dare una mano ad una vicina nel trasportare verso l'ascensore un paio di sacchetti di spesa in più.
A dire il vero non era necessario ma mi offrii molto volentieri. Lei era di una decina di anni più grande di me, da poco sposata, avvenente e molto seria, riservata, a volte severa nel salutare o esprimere lapidari giudizi.
Fu lei, qualche notte dopo, a spiegarmi, camicetta bianca ben tirata sui seni ampi e sodi, gonna nera attillata, scarpette di vernice a stiletto, di essere nella disgustosa ma irrinunciabile necessità di ricorrere ad un mio succoso contributo.
Venni come una fontana nei cessi della caserma e quella fu la prima volta che omaggiai la Signora Silvana delle mie morbose eiaculazioni, inserendola con tutti gli Onori del caso nel Pantheon delle mie Dee.
Delle Mogli Dominanti e delle loro marite castrate
Nel quale l'autore ci porta a conoscenza di un suo personale modo di leggere la castrazione maschile e ce ne mostra i sorprendenti risultati
La Signora Silvana, che qui per semplicità mi permetto di chiamare la Signora, era una trentenne del suo tempo, lavorava come impiegata in uno studio notarile e coltivava i suoi garofani sul balcone di casa.
Apparentemente...
Mi fece spogliare e, seduta sul sofà del salotto, gonna nerissima appena sopra il ginocchio, calze nere e stiletti in acciaio ai tacchi, si accese una sigaretta.
Mi ordinò di avvicinarmi e, con un certo disgusto, annotò che non era educato da parte mia ostentare la mia erezione innanzi i suoi occhi.
Fui così invitato a richiudere il mio oggetto (così lo chiamò) tra le cosce in modo da non costringerla a subire questa oscena esibizione di inutile mascolinità.
Cazzo e palle chiusi e trattenuti dalle cosce iniziarono quasi subito a dolermi ma non fu niente in confronto a quello che Lei, ironicamente, mi presentò come "aiutino di continenza".
Fui invitato a raccogliere due durissime mollette di legno dal tavolino in fronte a lei e, da me stesso, serrarle sui miei stessi capezzoli.
Una dopo l'altra molletta furono come se, una dopo l'altra, due fucilate roventi mi trapassassero le tette e mi giungessero dritte alla nuca. Ma resistetti. E la Sua cura di continenza funzionò egregiamente perché, subito dopo, il pisello iniziò ad afflosciarsi.
Lei, ovviamente, non ci fece caso.
Mi comunicò senza mezzi termini che mi trovava disgustoso, sporco e disordinato, mi ordinò di rasarmi, per la volta successiva, pube e ascelle.
Mi ragguagliò in merito alla mia funzione.
Brevemente e in tono asciutto mi mise al corrente dello status di schiava, serva e baldracca domestica di suo marito. Mi spiegò in poche frasi che Lei era la Padrona e lui doveva, semplicemente servire ogni suo desiderio. Ovviamente senza alcuna contropartita se non il permesso di masturbarsi, ogni tanto, ma non in casa, semmai nel cesso dell'ufficio.
Il cazzo di Suo marito era Sua proprietà e, le poche volte che lo usava si accertava, prima, di averlo ben svuotato con una lunghissima sessione di massaggio prostatico, eseguita per lo più come era vividamente descritto nel giornalaccio che io avevo tenuto nascosto nel mio armadietto militare per quasi tre mesi al fine di masturbarbi laidamente nei cessi della camerata.
Rise sommessamente e, quella risatina sommessa di scherno e disgusto, mi umiliò fin quasi all'orgasmo.
Arrossii e cercai, comicamente, di giustificare la mia mancanza ma Lei non ci fece caso, agitò con impazienza la manina e con essa la sigaretta: silenzio vescica di sborra - disse con un certo fastidio - mi fai perdere il filo ...
Continuò descrivendo la loro vita quotidiana fatta di angherie e soprusi sul marito e, infine, giunse al dunque.
Mi sorrise con melliflua cattiveria: mi dicono dai piani alti che tu sia una buona vacca da mungere e non ho motivo di dubitarne - spense la sigaretta nel posacenere - ma io, al contrario delle tue streghette da strapazzo ho bisogno di qualità, non quantità. Mi serve sperma sedimentato in giorni e giorni di astinenza, pieno di ormoni maschili frustrati e inutili, deteriorati dalla sottomissione, strizzato goccia a goccia usando la tua prostata come rubinetto e colati in ore di agonia in calici di vetro lavati con il mio nettare dorato.
Mi guardò un istante e sollevò il sopracciglio: non mi chiedi a cosa mi serve il tuo colaticcio raccolto così?
Non feci in tempo a rispondere ma Lei sapeva che io avevo capito. Non feci in tempo a rispondere perché venni sulle ceramiche bianche dei bagni della caserma mentre lei porgeva al marito, giorno dopo giorno, la pozione salata che, giorno dopo giorno, lo trasformava in una femminuccia debole e indifesa, dotata di un cazzo che stava ancora attaccato al suo ventre solo per l'impossibilità fisica di vivere una vita separata dal suo castrato portatore.
Mi faceva impazzire questa visione di castrazione ribaltata in cui il maschio non è privato del suo pene ma ne diventa solo il necessario portatore e tutto quanto vi ruota intorno viene svuotato di mascolinità a favore di un gioco crudele in cui la Donna separa un pene da un uomo rendendo femminile il portatore, quindi non necessitante di gioielli di famiglia, e l'unica vestigia fallica della mascolinità viene totalmente e irreversibilmente acquisito in proprietà dalla Donna.
Ovviamente lo sperma, che non ha funzione alcuna nel piacere femminile, doveva essere del tutto eliminato dal processo e, in una parossistica rivoluzione copernicana, l'essere mescolato allo sperma munto ad un altro uomo con crudele freddezza rappresentava il primo passo verso l'estinzione dei testicoli, ridotti a noci dolenti di calci e colmi di uno seme estraneo, incapaci di generare altra vita e morti ad ogni funzione riproduttiva. Il liquido seminale così sterilizzato poteva essere raccolto e gettato senza problemi mediante massaggio prostatico, attività poco impegnativa che lo stesso marito poteva anche svolgere in totale abbandono e solitudine, possibilmente durante la notte e avendo cura di non disturbare il sonno della Signora.
Fu per me così d'impatto questa fantasia che per più di un mese non uscii dal nostro primo incontro nel salotto della Sua casa.
Ogni giorno entravo, mi denudavo, chiudevo tra le cosce il pisello turgido, assaporavo (anche nella realtà) il morso delle mollette ai capezzoli, ascoltavo la Sua voce annoiata e disgustata narrarmi del Suo incontrastato dominio sulla marita e, infine, contemplavo nei ghirigori del mio sperma sul pavimento l'ultima scena della castrazione, un uomo depilato con indosso una leggera vestaglietta femminile che, in ginocchio, spalanca la bocca per raccogliere in se il mio sperma inutile e morto. Le mani asciutte e nervose della Signora che versano da calici di cristallo il mio liquido bianco e denso di ormoni dimezzati, morenti, i suoi occhi sprezzanti, i seni pieni sotto la camicetta immacolata e attillata, la gonna nera appena sopra il ginocchio, le calze nere, le nere scarpe di vernice con tacco a stiletto, acciaio freddo e lucente sulla mano del marito castrato.
Ogni tanto piccole spinte in avanti ma con difficoltà.
Mi ero davvero rasato il pube, i peli del sedere, gustavo con più osceno piacere il manico della mia spazzola piantato nel retto, con più osceno piacere legavo il cazzo e le palle in stretti giri di cordini e assaporavo la ridotta masturbazione che potevo eseguire così costretto. Venni, a volte, semplicemente carezzando per ore la punta turgida della mia cappella, per ore immaginando la Signora cavalcare un vuoto relitto umano la cui funzione era solo fornire uno sterile paletto di carne calda e sensibile alla Sua vagina dentata.
Dopo qualche mese di fantasie di questo tipo, a volte intermezzate da una sessione di estrazione di sperma dalle mie palle con vibratore e tacco a stiletto arrivò, inaspettata, un'evoluzione verso la situazione che più perversamente desidero: due aguzzine (e anche più) che operano su di me con disprezzo, disgusto e sadismo.
Adorabili!
Non fu per mia fantasia ma per colpa (merito) del geloso fidanzato di Lilli che mi telefonò una sera per minacciare ogni olocausto se mi fossi presentato da Lei.
Caddi dalle nuvole e il giorno dopo chiamai Lilli per chiedere spiegazioni. Presto detto: si erano lasciati e il cocco, preso da impeto di gelosia, stava tampinando tutti i suoi ex di cui aveva nozione per farle terra bruciata intorno.
Lilli non rientrò nella mia vita, mai commettere due volte lo stesso errore, ma rientrò come un fulmine nelle mie fantasie erotiche.
Giungendo a maturazione quasi completa il processo di femminilizzazione della marita la Signora la invitò a coadiuvarla nell'ultimo e definitivo gradino di castrazione: l'accoppiamento con un altro castrato. Ovviamente tale atto sessuale non doveva fruttare alle Sue bestie alcun piacere e, quindi, si rendeva necessaria una rigorosa procedura. Invitò Lilli come mia ex fidanzata a gustarsi l'anullamento della mia già blanda componente maschile e Lilli accettò più che volentieri.
Un paio di volte si incontrarono nella casa della Signora. Ci fecero, io e la marita, spogliare e accovacciare, totalmente nudi, con i testicoli gonfi tra le cosce e il pene oltre le cosce, in modo tale che dal sofà, ogni tanto, senza eccessiva fatica, mentre organizzavano la "soluzione ideale" potevano calciarci con le punte delle scarpe acuminate e rinforzate, al centro delle palle.
Ci volle un poco ma, alla fine si accordarono e venne il giorno e fu memorabile; un giorno che durò sei mesi di masturbazione quasi quotidiana, che si scompose e ricompose in mille rivoli di particolari e sfaccettature, che ebbe versioni truculente di peni trapassati da aghi roventi e versioni tecnologiche di scariche elettriche.
Adoravo il vestito leggero a fiorellini stampati che Lilli indossava sul corpo nudo, i Suoi anfibi luccicanti di metallo e fibbie, i Suoi occhi glaciali, il biondo sericeo dei Suoi capelli.
Adoravo il Suo pugno guantato di dura scorza che mi sgonfiava i testicoli schiacciandoli come noci, la Sua mano ferrea che mi afferrava per i capelli e mi costringeva a leccarle gli anfibi, la risata gorgogliante di Lei quando la Signora, disimpegnandosi un attimo dalla marita mi colpiva con forza alle palle, oppure, a gambe larghe, sormontandomi, mi cercava le mollette ai capezzoli, le trovava e stringeva fino a farmi quasi svenire.
Mi sentivo così inutilmente Suo in quei momenti di estatica turpedine.
Ma c'è un segno che va rispettato.
E il segno è la volontà delle Dee.
Fui preso a calci da entrambe fino a quando non caddi a terra, mi fecero girare pancia in su e mi piantarono nel culo, senza pietà il vibratore. Mi obbligarono ad aprire la bocca e fecero sdraiare la marita della Signora su di me, in modo che i sui flosci coglioni odorosi di lavanda vaginale mi occupassero tutto il cavo orale. Così come i miei flosci coglioni odorosi di lavanda vaginale occuparono il suo cavo orale. Anche lui fu attrezzato di vibratore. Le Dee si sedettero su due poltroncine contrapposte, accesero i vibratori, piazzarono le punte delle scarpe in modo che non sfuggissero dal nostro sedere e si diedero un tempo, tre ore di piacevoli chiacchiere mentre i vibratori mungevano i rifiuti di umanità riversi come sacchi di sperma ai loro piedi.
Tre ore di stimolazione senza piacere, tre ore di lento colare di precum uno nella bocca dell'altro. Dopo dieci minuti impazzivo di piacere morboso e venivo sul pavimento del bagno, stremato di vergogna.
Ebbi modo e tempo di esplorare fantasie più estreme, già l'ho scritto, ma mai così estreme come quella in cui Lilli si mette a cavalcioni sul sedere della marita, apre il vestitino sulla patata depilata e spalancata di sadico piacere, mi obbliga ad inculare l'uomo in ginocchio mentre Lei mi da il ritmo tirandomi per le mollette dei capezzoli e la Signora mi frusta la schiena per aumentare il mio dolore e diminuire l'erezione.
Così in bilico tra atroce dolore e irraggiungibile piacere si divertivano a portarmi fino al punto di supplicarle di essere castrato pur di non soffrire più di questa inappagata tortura.
Venire, mentre Loro mi rifiutavano ridendo anche questa liberazione, fu un classico.
E questo tormento onanistico sarebbe durato in eterno se non avessi incontrato Laura.
Della Dea Bianca e delle Sue Fedeli
Nel quale l'autore impara una nuova lingua, si converte ad un culto antico e prende commiato da Lettrici e lettori per dedicarsi alla sua attività elettiva
Come descrivere Laura? In Lei nulla lascia(va) presagire una così profonda e morbosa attitudine al sadismo. Lei è, credo, congenitamente sadica. Non ha "esperienze traumatiche" giovanili, non ha famiglie disfunzionali o genitori svalvolati. Nessuna precedente esperienza negativa.
Lei è, semplicemente così.
Se fossi un freudiano potrei azzardare una certa propensione all'invidia del pene ma, in realtà, lei amava teneramente la Sua Vulva, la Sua Vagina. Le amava fino al punto di deificarle.
Forse in questo amore narcisistico si può trovare una qualche spiegazione al suo crudele comportamento sessuale.
Ogni oggetto, persona, animale, vegetale, gas o liquido o solido, particella atomica o subatomica doveva, semplicemente, essere asservita al piacere della Sua Vulva, alle Sue Contrazioni Vaginali, alle Sue copiose Eiaculazioni.
Più che piacere sadico, Lei, viveva un Trionfo quando l'organo maschile, socialmente e antropologicamente dedicato a penetrare e possedere era, invece, relegato al mero compito di darle piacere senza condizioni, fruibile a comando e, a comando, riponibile nel cassetto, insieme al suo inutile possessore. Ovviamente senza generare sporco, senza inutili orgasmi maschili, senza liquidi che potessero, in qualsiasi modo, contaminare il Suo sperma Femminile con il quale amava "battezzare" (Sua espressione) in sacrilego rito di Emancipazione e Deificazione Femminile, il mio viso, il mio corpo, le lenzuola sulle quali Lei dormiva, il pavimento sul quale io ero costretto a dormire, ai piedi del letto, sulla fredda ceramica.
Lei era, davvero si sentiva, Reincarnazione della Dea Bianca, la Dea Madre Padrona unica della fertilità, unica depositaria dei Magici Fluidi.
Vi suona nuova questa situazione? No?
Con Laura ebbi a vivere in prima persona quello che, per la Signora, era dedicato alla Sua marita.
Io diventai presto la "marita" di Laura.
Non durò a lungo sia perché Laura si stancava presto dei suoi giocattoli sia perché fui costretto a dirle addio nel momento in cui Lei decise di trasferirsi per completare gli studi, in Galles, ospitata dalla famiglia di Sua madre.
Sì perché Laura era di padre italiano e madre gallese. Una miscela esplosiva di cattolici mediterranei e protestanti puritani.
Ancora, come descrivervi Laura? Era minuta, snella, di poco più bassa di me e, se avesse portato tacchi, sarebbe stata di qualche dito più alta. Ma Lei odiava i tacchi, da rivoluzionaria figlia dei fiori lei amava girare a piedi nudi, semmai con qualche sandaletto in estate e gli scarponcini Clark in inverno.
Portava i lunghi capelli castani con inquietanti riflessi rossi sciolti e liberi, raramente ci dedicava più di un paio d'ore a settimana per lavarli, velocemente sotto la doccia, con shampoo neutro e una passata rapida di phone.
Laura non si vestiva, copriva il Suo corpo quando faceva freddo e quando stare nuda poteva causarle un arresto immediato.
Quindi in casa Sua Laura mi esponeva con sincera naturalezza il Suo splendido giovane corpo, tonico ed armonico, fatto per essere nido di più di un uccellino e da Lei rigenerato per esserne gabbia e sala di tortura.
Fui io a iniziare o fu Lei?
Non so, forse durante le serate passate nella compagnia che entrambi frequentavamo si era detta una parola in più, forse durante le serate passate girovagando per la città estiva assonnata si era colto uno sguardo decifrabile solo da chi possedeva la chiave del cancello che porta al nostro mondo.
La prima volta Lei fu graduale e, quasi, gentile.
Mi permise perfino di venirle dentro, ovviamente in un preservativo.
Ma da qui iniziò un percorso che mi era del tutto (ma davvero era così?) inaspettato.
Ancora calda del nostro amplesso mi guardò, sdraiata sotto di me e mi carezzò un capezzolo, il cazzo ebbe un sussulto nella Sua Vagina e Lei sorrise: ti piace vero? Ti piace essere carezzato così?
Annuii senza voce e Lei continuò, con lieve lentezza all'inizio e poi sempre più duramente, alternando carezza e pinzate, carezze e pizzicotti, carezze e dure, sempre più prolungate, strizzate. Lavorò su entrambi i capezzoli e registrò, nel tempo, comunicandomelo, che il mio cazzo sussultava più per il dolore che per il piacere: abbiamo trovato il tuo sporco segretino? E' così? E' davvero così? Sei un masochista? Sei un porco masochista?
Non potevo fare altro che annuire, annuire, annuire.
Mi guardava negli occhi, mi teneva per i capezzoli e, così facendo apriva lo sportello della gabbia (prima morale e poi fisica) nella quale intendeva rinchiudermi: togliti dalla mia pancia, qui, sdraiati ... non toglierti il preservativo.
Eseguii in silenzio.
Lei mi si mise a cavalcioni ed estrasse il preservativo con cura, in modo da non perdere il mio liquido seminale: scommetto che l'hai già assaggiato, ti piace?
Arrossii come una verginella e, ancora senza parole, annuii.
Rise, rise di gusto:ast ffycin! - disse con gusto, di gola, mentre ancora rideva - ast ffycin ydych chi!
Non capii, e non potevo, anche se il suono mi sembrava lievemente britannico. Era gallese, la Sua Lingua di elezione. Mi aveva semplicemente etichettato: cagna fottuta, sei una cagna fottuta! - e rise ancora, dopo avermi tradotto con grazia e mentre mi portava alle labbra il preservativo - yfed a pheidiwch â cholli diferyn! Bevi e non perderne una goccia, fottuta cagna!
Mi strizzò il preservativo tra le labbra e poi, con indifferenza, me lo rimise sul cazzo, ancora teso e scappellato.
Si sistemò su di me e si impalò sul mio membro: non ho ancora goduto abbastanza, fottuta cagna, ora ti insegno un gioco. Quando ti dò due pizzicotti ai capezzolini tu acceleri, quando te ne dò tre ti fermi, quando te ne dò uno rallenti. Segui il mio ritmo, impara, uno un, due dau, un dau, un dau.
Sotto di Lei iniziai a muovere il bacino al ritmo del suo comando, accelerando quando un dau si susseguivano più veloci e Lei mi avvisava del cambio di passo con due dolorose pinzate ai capezzoli, decelerando quando un dau decelerava il ritmo e Lei mi avvisava del cambio di passo con una dolorosa pinzata ai capezzoli.
Giocammo il "gioco" dell'un-dau per tutta la notte e a me non fu consentito di venire neanche una volta in Lei. Quando sentivo di essere vicino dovevo supplicare una fermata (mi insegnò a chiedere "biti", pietà prima di venire) e a quel punto Lei mi lasciava sfogare nel preservativo e mi dava da bere il mio sperma, subito dopo. Non attendeva che io recuperassi, erano miei problemi, appena il cazzo era in qualche modo fruibile per una penetrazione si collocava di nuovo su di me e ricominciava: un dau, un dau, un dau.
Venne anche Lei tre o quattro volte.
Mi lasciò riposare qualche ora e ricominciò verso metà mattinata. Alla fine, il cazzo duro e sterile, non produssi più neanche una goccia di sperma e Lei mi cavalcò nel Suo gioco perverso un-dau per tutta la giornata.
Verso sera mi gettò addosso i miei vestiti e mi mise alla porta: torna domani ast ffycin, ci sarà una sorpresa!
Nei mesi che seguirono imparai il gallese necessario a servirla, il minimo di vocabolario che ogni vescica di sperma deve imparare per dare soddisfazione alla Dea Madre risposta nella Vagina di Laura. Solo quelle poche parole potevo pronunciare in Sua presenza e con reverenza, parole di autocastrazione che dovevano essere pronunciate nella Lingua Sacra del Suo personalissimo Culto.
Il giorno dopo tornai.
Mi face spogliare nell'ampio salotto del Suo appartamento mansardato in una via straricca di Milano e mi comunicò che i Suoi genitori erano partiti per una crociera piuttosto lunga nel Mare del Nord.
Era accoccolata sul divano, nuda e bellissima, fumava una sigaretta e beveva whisky da un bicchiere di antica fattura: da oggi tu sarai munto ogni giorno dall'alba al tramonto e ogni notte dal tramonto all'alba tu, ast ffycin, avrai l'onore di divertirmi.
Allungò un piede giù dal divano e spinse verso di me una CB, un oggetto che io avevo visto solo nelle riviste sadomaso, con un preoccupante foro per l'introduzione di una sonda uretrale.
Mi guardò con disprezzo e disgusto mentre armeggiavo con la gabbia di castità e, infine, mi indicò il basso tavolo da tè: metti qui sopra la chiave e preparati, culo all'aria, per essere munto.
Sperai, per un attimo, che mi volesse inserire nel sedere un vibratore ma fui subito deluso; la sentii armeggiare con qualcosa che suonava troppo insistentemente di cuoio e di acciaio, di fibbie e metallo: chiudiamo il rubinetto, per ora ...
Mi fece alzare e, senza esitazioni, inserì una sonda già lubrificata fino al fondo raggiungibile, una piccola vite in cima fermò nel mio canale uretrale l'aggeggio, tornai in posizione prona non senza aver prima ammirato il cazzo posticcio della mia nuova, realissima e inevitabile Dea: ti piace ast ffycin? So che ti piace e che non vedi l'ora di essere munta come una vacca.
Si accese una sigaretta, posizionò il posacenere sulla mia chiappa, infilò un paio di guanti, unse il fallo di lubrificante e, infine, entrò, lentamente, fino a dove potè entrare.
Imparai presto che essere munti così, senza fretta, con lenti movimenti pelvici, senza violenza, è il modo più violento di essere munti.
Lei, già resistente, si concedeva qualche minuto di pausa e poi ricominciava per ore intere. Era instancabile e si divertiva fino alle lacrime, le mie lacrime. Ogni tanto toglieva la sonda e permetteva al precum accumulato di colare sul pavimento, dal quale dovevo, ovviamente, ripulire: forza ast ffycin! Ora della merenda! - rideva di gusto, di gusto mi premeva il piede nudo sul capo - lecca cagna fottuta, è il tuo nettare.
Non immaginavo neanche quante cose potesse e sapesse fare mentre mi mungeva. Se voleva leggere o studiare mi posizionava vicino a Lei sul divano, estraeva il dildo dallo strap e, senza badare a me, continuava a fottermi in culo con una mano mentre l'altra era impegnata a sfogliare libri, quaderni, a scrivere o a tenere una cornetta per lunghe conversazioni femminili con le Sue amiche.
Qualche volta, mentre mi mungeva così, si masturbava, distrattamente si carezzava la Vulva e, ogni tanto, dava un tiro alla sigaretta che teneva con la stessa mano con cui manovrava il suo "estrattore".
Durante i primi giorni, quando voleva cucinare o scaldare qualcosa di cui cibarsi, mi metteva ai suoi piedi, culo in aria, mi spingeva in fondo il dildo e, dopo avermi drappeggiato il sedere con un paio di strati di carta cucina, posizionava il piedino sul mio ingresso posteriore ingolfato e spingeva ritmicamente: un dau, un dau, un dau - rideva sadicamente - un dau cagna fottuta, la Dea Madre ha fame e si prepara un po' di cibo.
Dopo qualche tempo e un paio di sommarie istruzioni, l'incombenza di prepararle colazione, pranzo, cena, passò a me - ovviamente - e, durante queste pause, cessava la mungitura che, comunque, ricominciava immediatamente quando Le servivo il cibo e mi posizionavo sotto il tavolo, a Sua disposizione.
Ma ciò che subivo dall'alba al tramonto non era nulla in confronto a ciò che Lei imponeva dal tramonto all'alba.
Liberato di tutto il precum mi era imposto di masturbarmi fino all'ultima goccia di sperma residuo dinnanzi a Lei.
Questo fatto si passava alla definitiva eliminazione degli "inquinanti" - qualche goccia residua di sperma che avrebbe potuto ancora annidarsi nel canale uretrale - mediante un lavaggio prolungato eseguito con un sottile, crudele, catetere armato di una gigantesca siringa piena di soluzione fisiologica. Lei iniettava e aspirava più volte nell'uretra la soluzione, due, tre, quattro volte, cinque, dieci. Osservava in controluce il contenuto della siringa e decideva se ricominciare o chiudere la "decontaminazione" a questo punto.
Infine "smaltiva" i "liquami" nella mia gola e, ridendo, mi carezzava lo scroto con la punta del piede: ecco fatto ast ffycin, abbiamo eliminato ogni traccia di inquinante, abbia ottenuto una perfetta decontaminazione e abbiamo correttamente smaltito i liquami nella cloaca. Sei puro per essere immolato alla Dea Madre!
Vi era una nota di ironia in tutto il suo discorso rituale ma, la costante ripetizione, ad ogni tramonto, dello stesso rituale, mi parlavano chiaramente di una precisa volontà religiosa di purezza, seppur dissimulata dal Suo crudele, sadico sarcasmo.
Da qui in poi iniziava il mio priapistico e doloroso calvario.
Il gioco dell'un-dau e l'uso dei miei capezzoli per avvisare del cambio di ritmo si prolungava fino a notte fonda. Lei si impalava, eiaculava sulla mia faccia, si masturbava, tornava ad impalarsi per ore e ore e ore.
Ogni tanto si fermava per darmi un attimo di respiro: riposa un poco ast ffycin, non sei ancora all'altezza ma con un po' di allenamento ce la faremo a farti diventare una perfetta fuck machine telecomandata.
E quasi ci riuscì ma poi, chiamata in Galles per l'inizio dei corsi invernali mi lasciò dinnanzi alla porta chiusa del Suo appartamento: " cose più importanti da fare ast ffycin, parto per studio, addio".
Niente altro.
Addio.
Nel Pantheon delle mie Dee Lei occupa sicuramente il posto più alto.
Solo un rimpianto: mi aveva più volte minacciato di chiamare a darle una mano la Sorella Maggiore, una sorta di Sacerdotessa del Suo Culto; mi diceva ridendo, mentre mi cavalcava e si schiaffeggiava il clitoride per stimolare un più potente orgasmo, eccitata al parossismo: non passerà molto tempo che verrai battezzato da mia Sorella, te lo assicuro ast ffycin, che tu migliori o meno non importa, sarai usato da tutta la mia Chiesa.
Ancora oggi sto cercando in giro, tra gruppi esoterici questa fantomatica Chiesa ma ho la certezza quasi assoluta che l'Unica Sacerdotessa del Culto di Laura sia, comunque, sempre Laura.
Lo considero un Suo dono d'addio: materiale per masturbarmi fino alla fine dei tempi, in Sua compagnia e in compagnia di tutta la Sua Chiesa.